Recensione di Michele Bordin

... Il classicismo di Comacchio è apprezzabile con altrettanta evidenza sul versante tematico. Il suo soggetto predominante è il corpo umano, in specie quello femminile, che - come affermato ancora da Manzù - costituisce l'ideale per lo scultore, perché perfetta sintesi volumetrica di pieni e di vuoti.
Simile predilezione per la figura presuppone non solo la fede in un realismo ide­alizzato (che è il modo di rappresentare più altamente convenzionale) ma anche, nel caso specifico, una concezione tradizionale della don­na, vista come espressione di grazia, di riserbo, di compostezza, in piena controtendenza rispetto a quanto si osserva - giusto per richiamare i casi in cui l'identità di genere coincide con la traspo­sizione creativa - nella vivacissima costellazione delle artiste contemporanee, da Louise Bourgeois a Carol Rama; da Gina Pane a Marina Abramovic; da Cindy Sherman a Orlan, per le quali rappre­sentazione del corpo femminile significa essen­zialmente deformazione, metamorfosi, sfregio, finanche protesta contro modelli estetici percepiti come prevaricazione maschilista o imposizione dei diktat estetici della società di massa. Si ricorda, a proposito della centralità del tema del corpo nella cultura del nostro tempo, che a esso era stata dedicata la Biennale Arti Visive del 1995, quella celebrativa del centenario dell'istituzione.
Da più di un secolo, infatti, la figura umana è divenuta l'indice più sensibile, per gli artisti e per la coscienza collettiva, dei rivolgimenti e degli orrori della storia, di cui il Novecento ap­pena concluso ha fornito un terrificante campio­nario, una sequenza quasi ininterrotta di "trionfi della morte" su scala planetaria. Tragedie che hanno minato l'idea, già molto compromessa, di un umanesimo - laico o cristiano - presente e attivo nel mondo.
I milioni di corpi seviziati, martoriati, annien­tati, sono quegli stessi che vediamo proposti e allegorizzati dai dipinti di Picasso e di Bacon, dalle sculture di Alberto Giacometti, dalle cataste dei morti nei lager nazisti che Music trasferisce sulla tela con una leggerezza di tocco inversa­mente proporzionale all'intollerabile pesantezza, materiale e morale, del soggetto.
Ma il mondo figurativo di Comacchio risulta immune da tutto questo, perché un artista è anche libero, fra tanti orrori, di chiamarsene fuori, di isolarsi per perpetuare un ideale di bellezza e di civiltà non minacciato dalla rovina. Un simile atteggiamento è insieme nostalgico e agonistico, così come qualsiasi ritorno al classico dopo la fine del mondo antico: basti pensare all'esempio più noto dell'età moderna, quello che tra Sette e Ottocento ebbe tra i suoi protago­nisti Winckelmann, Canova, Thorvaldsen, i quali, sullo sfondo di rivoluzioni storiche e industriali destinate a cambiare la civiltà dell'Occidente, si fecero alfieri di una grecità tanto rarefatta quanto, in buona sostanza, arbitraria. La bellezza, insom­ma, che sempre lotta per affermarsi, nell'età della tecnica deve farlo a maggior ragione per non morire.
E a un'idea di bello che include la con­vinzione della sacralità naturale del corpo, Co- macchio rende un tributo virilmente commosso, nel solco di un antropocentrismo considerato, nonostante tutto, ancora integro e praticabile nelle coordinate concettuali di base. Ecco allora che le sue immagini di donna, imperative e al contempo indifese nella loro casta nudità, si offrono al nostro sguardo come creature semidi­vine, muse - secondo la definizione dell'artista - nel doppio significato di rivisitazioni non palu­date delle antiche protettrici delle arti e dei saperi, e di simulacri allusivi a una dimensione dello spirito intesa come intimo raccoglimento.
Il dialogo cui esse invitano, severe ma avvici­nabili, promette ristoro, non allarme; sospensione del frastuono, non suo incremento. Idoli o totem perfettamente compiuti di una religione laica per la quale il bello coincide ancora con il buono, non pongono l'osservatore in uno stato di allerta, intimandogli di entrare in conflitto con un sistema di valori codificato da lunghissimo tempo. Muse, si è detto, non Furie o Erinni dalle espressioni stravolte, dai ventri sterili o gravidi di mostri, e neppure frammenti di una classicità concepibile soltanto nel suo essere rovina, come propone lo scultore di origine polacca Igor Mitoraj.
Nei busti così come nelle sculture a figura intera il soggetto è quasi sempre colto in uno stato di equilibrio, in un'espressione concentrata e autoprotettiva, cui allude talora il gesto delle braccia incrociate sul seno. La sintonia dell'artista con il Degas pittore e scultore di ballerine o con il Francesco Messina della fase "neoclassica" traspaiono anche dalla più recente attenzione per il tema della danzatrice, che Comacchio rappresenta perlopiù - come il suo illustre ante­cedente francese - nei momenti che precedono l'azione, allo stesso modo in cui di una nuotatrice gli interessa non il movimento nell'acqua ma la posa in tensione assunta prima del tuffo.
Eccezion fatta per due impegnativi gruppi bronzei dedicati al tema dell'emigrante e collocati stabilmente in spazi pubblici, l'artista preferisce la figura singola, anche di piccole dimensioni, mostrando in questa scelta un altro tratto classi- cistico, nel senso categoriale del termine, vale a dire la passione per la variazione sul tema, per l'indagine moltiplicata fino a comporre delle serie coerenti. Non a caso, tra gli artisti che Co­macchio sente più affini, vi è Giorgio Morandi, instancabile pittore - nella sua fase maggiore e antonomastica - di un ristretto gruppo di oggetti continuamente ricombinati e perciò stesso da accogliere - con le parole di Roberto Longhi - "come stimolo a ricercare ancora e sempre dentro di sé, non fuori di sé". Dentro di sé un artista come Comacchio ritrova, immutabile, il modello di un classicismo acronico, rispetto al quale l'in­novazione è possibile soltanto come piccolo scar­to, come lieve concessione al non finito, come rinuncia alla levigatezza assoluta delle superfici (e in questo agisce da una parte la lezione di Rodin, dall'altra quella - forse meno evidente a un primo sguardo - del pur antinaturalistico Medardo Rosso). Fuori di sé sembra esistere solo il caos, il rumore e la furia dei "nuovi barbari" che realizzano dipinti, sculture, installazioni e quant'altro in assenza di un ordine estetico pre­stabilito e con i materiali più eterogenei.
Nel cerchio magico formato da una vita serena e di cui il luogo fisico dello studio appare l'em­blema, è nondimeno lecito, a un artista appartato ma sicuro del suo mestiere, continuare a formare splendidi corpi di donna con la passione demiur­gica di chi trae figure dalla materia informe. Intorno a quel cerchio, Sergio Comacchio dispone le sue semplici muse come testimoni e protettrici di un kosmos non del tutto scomparso. La scelta dell'inattualità è del resto un altro modo di av­vertire il contatto urticante dell'attualità, ma per neutralizzarne gli effetti venèfici, se persino Ercole dovette soccombere dopo aver indossato la ca­micia di Nesso.